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Nurun mito del silenzio.

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Nur ... un mito del silenzio.

La città di Mantova si risvegliava specchiandosi sul filo dell’acqua delle peschiere nell’alba che d’argento s’andava facendo luminosa, striata appena qua e là di rosso pallido che si perdeva nell’azzurro del cielo. Nella Camera degli Sposi gli affreschi alle pareti si animarono di un tremolio leggero quando il latrare di un cane, per un istante, echeggiò nei corridoi, perdendosi poi attraverso le fughe di stanze. Nessuno se ne accorse, tranne alcuni servitori che mossero appena le palpebre mentre si rivoltavano nei loro giacigli. Era scoccata l’ora. Di lì a poco avrebbero ripreso le faccende cui erano assegnati, ognuno le proprie, senza far rumore. Gli Sposi, avrebbero continuato a dormire abbracciati per molto tempo ancora, dopo l’euforia della notte colma di piacere.
Erano giorni di festa quelli e nella splendida corte dei Gonzaga il vociare dei bambini e delle balie nane che li rincorrevano da una stanza all’altra, era tenuto lontano dalla Camera degli Sposi che per nessuna ragione dovevano essere disturbati, se non dai servitori che, ad una cert’ora tarda del meriggio, avrebbero recato i vassoi della prima colazione, ma senza fare il purché minimo rumore. Solo ai putti angelici che si affacciavano dalla balaustra del trompe-l’oil del soffitto erano permessi i sussurri divertiti, mentre alcuni domestici sbirciavano indiscreti e attenti, cercando in qualche modo, di non farsi vedere.
Intanto a Palazzo Te, la splendida dimora di caccia appena fuori dell’abitato che Giorgio Vasari definì: «un poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso», i cavalli scalpitarono irrequieti in attesa del pasto mattutino che gli stallieri di corte avrebbero portato loro di lì a breve. Nessuno pensò che a renderli smaniosi fosse il suono del liuto che, ancor prima che facesse giorno, proveniente da chissà quale segreta alcova, si era levato d’intorno. Un pizzicato sottile, una vibrazione di corde che risuonava come un sussurro nell’aria, o forse come una carezza del vento sopra le criniere.
Neppure i cuochi di palazzo a loro volta l’avevano avvertito, avvezzi com’erano al risuonare degli strumenti agresti e all’euforia dei balli contadini che la sera prima avevano loro conciliato il sonno. E bene facevano i conducenti dei carri degli approvvigionamenti a non disturbare la perfetta quiete che ivi dovunque regnava, cui non era permesso nemmeno di avvicinarsi troppo alle finestre della sontuosa dimora, che le sole ruote avrebbero creato trambusto sul selciato, per non dire del fragore assordante del trascinare le ceste delle mercanzie.
Lontani, nei campi, i contadini qui provvedevano alle sementi o alla raccolta dei frutti, più in là alla trebbiatura del fieno in totale silenzio. Nel mentre, nella palude lacustre, i cacciatori tenevano abbassati i fucili e i pescatori tiravano le reti senza alzar baccano. Solo al falcone era dato adocchiare dal cielo la preda solitaria che si aggirava ignara fra le siepi e la rada boscaglia, allorché la agguantava infliggendole gli artigli nel corpo fino alla stremo, senza che s’udisse un lamento, ed erano allodole o anatre, giovani conigli e salamandre.
Erano quelli i tempi in cui Federico II, divenuto signore di Mantova, aveva deciso di trasformare l’originaria isoletta in luogo di svago e di riposo, solita a fastosi ricevimenti con ospiti illustri, ove poter ‘sottrarsi’ ai doveri istituzionali assieme alla sua bella amante, Isabella Boschetti. Abituato com’era all’agio e alla raffinatezza, aveva trovato nel pittore architetto, certo Giulio Romano e ai suoi collaboratori, un ottimo realizzatore della sua idea di “isola felice”, per dare sfogo al suo genio e alla sua fantasia. Ben presto simboli e stemmi, avevano insignito di velleità più o meno celate, le facciate del gentile palazzo con festoni e decori; abbellite le pareti delle stanze con affreschi e dipinti che attraverso ponti immaginari e grottesche, richiamavano alla natura ospitale del giardino che aveva voluto tutt’intorno.
Erano sorti così, il Monte Olimpo, con ‘Giove che seduce Olimpiade’, circondato da un Labirinto di bosso uscente dalle acque, ahimè oggi scomparso. Inoltre a effetti luminosi, simboli e rimandi di elementi architettonici, in un alternarsi di vedute di Città lontane, più pensate che reali, che si specchiavano nelle vicine peschiere. Anche la fauna vi era rappresentata, fatta oggetto di particolare attenzione, e quella ‘salamandra’, che Federico II elesse a suo simbolo personale, assieme alla quale spesso, era affiancato il motto: ‘quod huic deest me torquet’ (ciò che manca a costui mi tormenta), non a caso ritenuta l’unico animale insensibile agli stimoli dell’amore, in contrapposizione con la sua natura galante e sensuale, tormentata dai vizi della passione.

In tempi più recenti, in una dimora attigua, seduto sulle ginocchia, un giovane musico intonava i versi di una ballata medievale il cui andante iniziava in tal modo: ‘Wish I had a troubadour and sitting by my necks …’ accompagnato dal dolce suono del liuto, mentre Nur si abbandonava in sbadigli amorevoli che riservava alla sua figura appena intravista nel grande specchio posizionato davanti al grande letto. Un talamo con baldacchino rivestito con lenzuola bianche di fiandra e grandi cuscini rigonfi. Come pure latteo era il suo corpo, opale il suo viso emaciato, se non fosse per le sue labbra di colore vermiglio e i grandi occhi scuri e profondi come l’abisso, dov’era possibile perdersi e ritrovarsi nello spazio di un batter di ciglia o, quand’anche fosse, dare spazio alle apparenti illusioni, alle speranze irrisolte, alle attese deluse di un’intera esistenza.
Il suo corpo era tutto per lui, tutto quello che aveva, tutto ciò che gli era dato in ogni sua minima parte. Ogni lembo della sua pelle chiedeva ancora un contributo di vitalità a quella esistenza che aveva speso per intera, senza lasciare niente per dopo. Una figura all’apparenza fragile ma vigorosa, un fascio di muscoli e nervi che si levavano dalle piante dei piedi fino alle braccia levate, alle sue grandi mani affusolate, capaci di disegnare ghirigori di neve nell’afferrare le note fluttuanti che il liuto, in quel momento, rimandava da una parte all’altra delle contrade, fino a sfiorare la quiete perfetta che regnava nella Camera degli Sposi, cullandoli nel loro infinito riposo, vegliato dal silenzio della storia.
È qui, in questa Corte dei Gonzaga, che Nur ha legato il proprio ricordo, nel fervore dei preparativi di un’ultima esibizione, nel ruolo di Filippo II, accompagnato da un’eterea e leggiadra compagna di scena, quella Carla Fracci che per l’occasione vestiva i panni della sua tenera sposa. Entrambi vestiti di bianco, quasi fossero i novelli Sposi che nella Camera degli Sposi dipinta dal Mantegna, apparivano sulla scena entrambi ‘innamorati dell’amore’ per quella danza che li aveva resi famosi. Un raffinato rimando ai fasti rinascimentali, ai costumi e alle consuetudini dell’epoca, al medievale ‘recercare’ degli strumenti antichi, alle musiche a ballo, al vociare delle dame, alla danza silenziosa delle molte fiammelle di candele accese sulla scena.
Tutto un accendersi di piume colorate sui cappelli, lustrini scintillanti sui corsetti appena stretti in vita, le calzamaglie guantate che permettevano ai danzatori i movimenti sciolti, rapidi, eleganti, nella piena libertà del corpo. Assieme alle sollecitudini delle tensioni, degli allacci e degli scioglimenti, dei voli angelici, delle molte evoluzioni di quell’amore che avvinghiava i loro corpi ai sentimenti e ai turbamenti dei sospiri. Così come ai respingimenti e agli abbracci nella danza che anticipavano il piacere, la sensualità e la passione che dimorava nei loro corpi; un’intera esistenza racchiusa in un’ultima performance che si consumava sul palcoscenico cedevole delle loro vite.
Ma la storia come si sa non fa rumore, semmai chiama a riflettere, rimanda ai ricordi, ai successi raccolti, a quell’arte che ancora oggi si mostra, sempre uguale a se stessa, dalle pareti di una dimora principesca che ancora oggi rende Mantova unica, fra le tante. E mai nessuno allora poté farsi meraviglia quando il giovane Troubadour levati i suoni modulati dal suo nostalgico liuto, riportò alla memoria il tempo degli allegri giullari, le danze cadenzate, gli scherzi e i lazzi di quell’ultimo Carnevale. Neppure quando, ancor tenendo bassa la voce melodiosa, ai piedi del suo capezzale, prese a pizzicar le corde del liuto, cullando amorevolmente l’affaticato Nur, morente.
“Per vederlo danzare ancora, per non lasciarlo solo affinché l’alba s’inchini a baciarne il risveglio, le sue labbra vermiglie, il suo batter di ciglia … perché torni a levarsi sul filo dell’acqua delle peschiere, nel silenzio assordante del primo ed ultimo mattino del mondo” – disse, nel momento stesso in cui l’alba violetta andava facendosi luminosa.
Una moderna leggenda congegnata all’uopo, vuole che ancor oggi, in certe albe azzurrine, striate qua e là di rosso e viola, il malinconico suono del trovatore, torni a far sentire il suono malinconico del suo liuto, sì che a qualcuno sembra aver perduto il tono.
Sì, adesso ricordo, lo scroscio degli applausi si era levato lesto dagli Sposi e dalla Corte tutta, giungendo fin nelle contrade della comune gente accorsa ad ammirare l’abile étoile in piedi sul proscenio, per una standing ovation più che meritata, che insieme il fragore del giubilo raccoglieva la riconoscenza dell’intera città di Mantova e del mondo intero, per aver egli elevato la sua vita, al più alto onore dell’arte della danza …

Rudolph Nureyev, un mito del silenzio.


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